ROMA - Ci sarà un nuovo processo per la tragedia della Thyssenkrupp. La Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d'appello di Torino: è necessario, hanno detto i supremi giudici, rimodulare le condanne per omicidio colposo e omissione volontaria di cautele contro gli incidenti inflitte ai sei dirigenti della multinazionale tedesca dell'acciaio. Probabilmente al ribasso, ma non si escludono altre possibilità. Gli stessi avvocati difensori, che pure avrebbero dei motivi per dirsi soddisfatti, in attesa delle motivazioni non si sbilanciano a commentare un dispositivo che ritengono "criptico".
I parenti dei sette operai morti nel devastante incendio scoppiato nel dicembre del 2007 si erano raccolti in presidio a Roma con gli striscioni e le foto dei loro cari: avevano sperato in un esito diverso e, nella notte, hanno fatto sentire le loro proteste "perché gli assassini non sono stati condannati". "Siamo delusi perché dopo sei anni e mezzo non è stata ancora scritta la parola fine", dichiara Antonio Boccuzzi, l'unico lavoratore sopravvissuto al rogo, oggi deputato del Pd. Quanto agli imputati italiani (per i due tedeschi la procedura è più complessa) in caso di esito sfavorevole erano già addirittura pronti a costituirsi, come aveva spiegato uno dei loro avvocati, Cesare Zaccone, a margine dell'udienza.
La difesa aveva messo all'indice la durezza del verdetto di secondo grado (la pena più alta era per l'ex amministratore delegato Harald Espenhahn, dieci anni di carcere, mentre le altre spaziavano dai sette ai nove anni).
La mossa della Cassazione non soddisfa la squadra guidata dal pm Raffaele Guariniello: il pg Carlo Destro aveva chiesto alla Suprema Corte di respingere il ricorso dalla procura di Torino, che era contraria alla riduzione delle pene operata in appello e che voleva la condanna di Espenhahn per omicidio volontario con la formula del dolo eventuale (sarebbe stata la prima volta in Italia in un processo per un incidente sul lavoro). E' vero che l'attività della filiale piemontese della Thyssenkrupp, in quegli ultimi mesi prima della smobilitazione e del trasferimento a Terni, fu caratterizzata da "grandissima sconsideratezza". "Si volle continuare a produrre - ha detto - senza adeguate misure di sicurezza ma risparmiando quanto più possibile in vista dello smantellamento dell'impianto che sarebbe dovuto avvenire nel febbraio 2008, due mesi dopo il tragico rogo".
Ma è altrettanto vero, secondo il magistrato, che "i manager e i dirigenti chiamati a vario titolo a rispondere della morte dei sette operai facevano affidamento sulla capacità dei lavoratori di bloccare gli incendi che quasi quotidianamente si verificavano nell'acciaieria, e chi agisce nella speranza di evitare qualcosa, se quel qualcosa si verifica, non può averlo voluto".
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