venerdì 8 novembre 2013

Pescara: strangolò la moglie, confessa dopo 22 anni. Assolto (prescrizione del reato)

Teresa Bottega, uccisa dal marito 23 anni fa
PESCARA - "Si è goduto la vita". E' l'amara conclusione cui i familiari di Teresa Bottega, la donna uccisa nel Pescarese nel marzo del 1990 dal marito Giulio Cesare Morrone, per il cui omicidio, confessato dopo 22 anni, non sconterà nemmeno un giorno di galera. Il motivo? Il gup del tribunale di Pecara ha deciso che quel delitto è prescritto, perché durante il processo con rito abbreviato che si è tenuto nel 2013, il giudice non ha riconosciuto i futili motivi.
Solo quella aggravante, infatti, avrebbe reso il reato imprescrittibile. Per l'articolo 157 del Codice Penale, non vi è prescrizione di reati che prevedono la pena dell'ergastolo. E, in questo caso, il non riconoscimento delle aggravanti, ha permesso a Morrone di evitare appunto il carcere a vita, anticamera della prescrizione del reato, dopo 22 anni.
All’epoca il caso venne rubricato come scomparsa volontaria, dato che la donna, 35enne, sembrava essersi allontanata per ragioni legate ai rapporti incrinati con il marito. La denuncia di scomparsa venne fatta dalle sorelle sette mesi dopo, nell’ottobre del 1990, e il marito confermò l’allontanamento della moglie aggiungendo che già un’altra volta la 35enne se n’era andata dopo un litigio.
Molti anni dopo la confessione, prima al parroco e poi agli inquirenti. Infine il processo e la sentenza, scandalosa per i familiari della vittima, e la libertà
Il Tribunale di Pescara, con il GUP Sarandrea, ha infatti sancito il "non doversi procedere per intervenuta prescrizione" per l'uomo, che ha mantenuto il segreto per 23 anni, fino a quando un uomo si è rivolto alla Squadra Mobile dopo aver ricevuto una confidenza da un parroco vicino a Morrone, che sapeva del delitto. Il Pm aveva chiesto 16 anni di carcere per Morrone. L'uomo, fuori dall'aula ha esclamato "Sia lodato Gesù Cristo". 
«L’ho uccisa in casa, era mattina ma il giorno preciso non lo so, domandate alle sorelle, loro ricordano». Era cominciata così la confessione di Giulio Cesare Morrone, 56 anni, davanti agli uomini della Mobile. «Le ho stretto le mani al collo, lei ha smesso di respirare». La famiglia viveva in una palazzina di Santa Teresa di Spoltore, in via Lago di Garda 6. Quella mattina del 6 o del 7 marzo 1990, i coniugi sono soli in casa. La figlia di 13 anni è a casa dei nonni paterni, il figlio di 11 aspetta sotto casa che il papà lo porti a scuola. «E ho fatto così. L’ho accompagnato, poi sono tornato a casa.Il corpo l’ho messo in un cesto grande e con quello sono sceso in garage attraverso una scala interna». Doveva augurarsi di non incontrare nessuno e nessuno ha incontrato. A quel punto ha caricato il corpo nel bagagliaio e si è messo in macchina: «Non sapevo dove andare, ero in trance, ho guidato senza sapere dove andare. Mi sono ritrovato in autostrada, direzione nord e poi a Ferrara ma non lo so perchè mi sono fermato in quel posto». Quel posto sarebbe Bombeno: «Mi ricordo il cartello, ho dimenticato tutto, il cartello no».

Riapre il bagagliaio, prende il cesto, pesa poco: la donna negli ultimi tempi era dimagrita, pesava 50 chili. E butta il canestro in un fiume: «Non lo so se era un fiume, poteva essere un torrente, un canale». Rientra in macchina e guida verso Pescara: «Sono arrivato che era buio». Per andare quattro ore e quattro per tornare. 

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